Pagina aggiornata il 18 Marzo, 2024
Rubrica “Eco del Libro”. Recensione numero quarantaquattro.
di Andrea Borla
Ci sono romanzi che possono essere paragonati a un’esplosione che ti investe e ti lascia i segni addosso. Quando il lettore è fortunato, l’esplosione non è solamente un espediente narrativo per focalizzare l’attenzione in un punto e poi allargare la visuale a ricomprendere in un tutt’uno personaggi e storie che da lì dipartono o hanno termine: è il preavviso di un coinvolgimento che arriverà a farci meditare sul fondamento dei nostri valori e della società che ci circonda.
L’esplosione di “Splatter Baby” di Alessandro Cascio ha una precisa collocazione temporale, il 22 dicembre 1997, il giorno in cui nel paesino di Trenchtown hanno luogo alcune azioni apparentemente scoordinate: un agente di polizia ingoia accidentalmente un’ape, una troupe televisiva è accorsa per filmare un avvenimento dai risvolti sconvolgenti, una ragazza diciottenne si arrampica sul tetto di un furgone, un ragazzo di colore ha appena interrotto una telefonata con un’amica, ma soprattutto sono passati sei minuti da uno sparo e un uomo sta gridando.
L’identità di quei personaggi, che Cascio lascia momentaneamente cristallizzati nel tempo, verrà chiarita dall’autore partendo da una precisa suddivisione in due categorie: i bambini e gli adulti, questi ultimi ancora suddivisi in genitori e insegnanti.
I bambini di Trenchtown presentano schizofrenie e comportamenti da adulti, sono disillusi verso la vita fino al nichilismo e alla distruzione (per loro “non c’era né Inferno, né Paradiso: c’era il niente“), pensano che dare alla luce un figlio è un po’ come ucciderlo, si mettono alla prova con sadici riti di iniziazione che non mirano a mostrare il coraggio dei partecipanti ma “all’umiliazione, la prima ricerca dell’affermazione in tenera età, con la sottomissione di un proprio simile“.
Le loro gesta lucidamente folli sono immortalate nelle foto scattate da loro stessi ed esposte per creare vergogna e ludibrio o per fissare un momento nel tempo come in una performance di artisti concettuali d’avanguardia: un cane imbullonato ancora vivo su una macchinina guidata da un bambino, un rapporto omosessuale obbligato tra due adolescenti, un gatto dato alle fiamme.
Gli adulti, per contro, mostrano la loro “vera natura d’uomo, quella impaurita e bisognosa di pietà“. Vivono in una società chiusa, dai confini e orizzonti limitati, in cui alcuni perdono l’identità e vengono individuati esclusivamente in riferimento all’attività che svolgono (il cacciatore, il barista, il macellaio) o per i rapporti che li legano a qualcun altro (la moglie del cacciatore).
Sono bloccati in giochi di potere che hanno come vittime gli stessi bambini, come la direttrice che dissemina di spilli i propri vestiti riposti nell’armadio per ferire la figlia quando proverà a indossarli di nascosto in sua assenza o il desiderio di possesso del professore che ricerca un rapporto sessuale con un’allieva.
Gli adulti hanno sostituito punizioni corporali più o meno raffinate con il Ritalin, “la nuova catena che il progresso ci ha fornito in boccette da ottanta millilitri (..) il primo tranquillante che si dà ai bambini per calmare i genitori“. E hanno introdotto nuovi metodi di insegnamento, come l’astenersi dal dare chiarimenti perché “gl’ignoranti (…) rischiano di apprendere e non c’è niente di peggio per chi è al potere, di trovarsi di fronte a un ignorante che ha appena scoperto di non esserlo più“.
Il quadro che emerge dal libro è deliziosamente desolante, e mette a nudo l’idea farisea e ipocrita di una famiglia preconfezionata e perfetta, che nei fatti è costruita su modelli inconsistenti che si scontrano con una realtà sistematicamente e scientemente impegnata a negarli. E una famiglia così non può che generare (o discendere da) una società il cui primo obiettivo è preoccuparsi di ciò che pensano gli altri, di ciò che è corretto, di ciò che è giusto (1).
Poco importa se nel finale del libro si assiste a una tardiva presa di coscienza degli errori commessi (2): la summa di quelle famiglie, di quella società e di quei falsi valori è rappresentata dal fallimento e dalla negazione anche di fronte alla più assoluta evidenza. Non c’è rimedio per la cecità: è questo il messaggio che Alessandro Cascio ci lascia e con il quale siamo costretti a fare i conti.
(1) “Così ebbe il tempo di infilarsi il pene nei pantaloni, chiudersi la cerniera e alzarsi. Poi anche lui cadde in terra esanime sotto il colpi del bambino. (..) quel cadavere (..) aveva avuto, più della paura di morire, paura di essere giudicato dai cittadini che lo avrebbero riconosciuto. Che morte ridicola sarebbe stata, che figura da frocio avrebbe fatto“.
(2) “Colpevoli noi tutti, colpevoli di non aver fatto niente per aiutarli. (..) Gli occhi di quei bambini rappresentavano (..) ogni ‘non posso’, ogni ‘non voglio’, ogni cosa negata o data loro senza il senno di poi. Tutti colpevoli, siamo, dovremmo entrare lì dentro e farci ammazzare dai nostri figli pagando la colpa di non avere saputo allevarli“.
(Andrea Borla)
Splatter Baby, di Alessandro Cascio
Ed. Il Foglio 2011
12 euro
160 pagine
ISBN 9788876063503
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