Pagina aggiornata il 20 Marzo, 2024
Per spiegare il significato, l’origine e la storia di due termini caratteristici di Torino, Bôgianen e Bicerin, faremo riferimento ad un vecchio testo del 1898, cominciando dal primo.
Quello che segue è appunto il pensiero di un uomo d’altri tempi, nato nel 1851 e morto nel 1913: lo scrittore, poeta e giornalista torinese, Alberto Viriglio.
In tutte le città vi è sempre un predominio di uno o più cognomi. A Torino, in quell’epoca, i più diffusi erano Ferrero-Ferraris, Rossi-Rosso, Barbero-Barberis. Tra gli altri vi erano Bianchi e Colombo, forse d’importazione milanese come Venturini e Della Casa, poi dal meridione c’erano gli Esposito, in particolare tra gli allievi Carabinieri.
Il più antico cognome di origine piemontese sembrava essere Beccuti, famiglia arricchitasi nel medioevo.
Bôgianen e Bicerin appartengono a quella schiera di nomignoli rintracciabile un po’ ovunque e utilizzata per definire i locali, la gente del posto. A volte esagerando, con malignità, portando poi a stupide rivalità tra persone di luoghi diversi.
Gli epiteti toccati ai torinesi, per fortuna, non sono poi così male, non appaiono in realtà negativi, anche se un pizzico di presa in giro salta sempre fuori.
Nei primi del ‘900, a quanto pare, si definiva gli abitanti del capoluogo piemontese con questi due termini, uno relativo ad una particolarità del carattere (Bôgianen), l’altro legato ad una tradizionale bevanda del luogo (Bicerin).
Bôgianen descriveva un po’ una generalità di tutto il Piemonte, ma possiamo dire che Torino se ne poteva prendere la fetta maggiore. A seconda del pregiudizio di chi utilizzava tale nomignolo era possibile ottenere differenti significati:
- pigro, svogliato, “quietista”, poco propenso alle novità
- restìo, cocciuto, fermo
- forte, costante, incrollabilmente fedele.
Come vedete, tutto dipendeva dal punto di vista, variava da persona a persona in base ai suoi preconcetti. Si potrebbe dunque fare una media (un quid medium) e trovare il carattere del vero torinese, che si culla ma non si fossilizza nel “si è fatto sempre così“; si adagia ma non si addormenta, vacilla magari, ma non crolla, né si deprime nella bufera, nel freddo vento portato dal “furbetto di turno” o nell’uragano della bancarotta, del fallimento. Senza far troppo rumore riprende il suo posto di battaglia e continua, mantenendo la posizione ferma, senza arretrare di fronte agli attacchi provenienti da tutte le direzioni. Anzi, “Bogioma nen contac!” (anche morente, dice la sua).
Tale ultima peculiarità, probabilmente la più nota, la possiamo trovare in famosi personaggi piemontesi della storia, come Pietro Micca, Paolo Sacchi (torinese d’adozione), Pietro Toselli, Giuseppe Galliano.
Tutto questo, ovviamente, non è legato all’etimologia del termine. Non si pretende tanto. Qualche etimologista (viene citato Ignazio Pasquini) ha suggerito che il nomignolo sia nato grazie agli emigrati che si arruolavano volontari nell’armata sarda e, non capendo il piemontese, venivano continuamente ripresi dal caporale istruttore con il classico “Bogianen!“. Da qui, il soprannome.
Un po’ ingegnosa come ipotesi, ma poco convincente. La nomea è forse nata quando i torinesi, i piemontesi in generale, vennero scossi e iniziarono a reagire, scaldandosi il fegato e rischiando la vita e i propri beni, per costruire la “Nuova Italia”? Oppure la caratteristica tipica, agli occhi degli altri, è antecedente al 1848, anno fondamentale per il percorso verso l’unificazione nazionale?
Sarà utile citare alcuni esempi, contrastanti, spesso influenzati da rivalità:
- Giulio Cesare Scaligero, morto nel 1558, definì i torinesi “d’ingegno naturalmente acuto, ma neghittosi e poco curanti di quanto potesse riservarci il domani“.
L’autore del nostro libro di riferimento critica tale definizione, poiché il contributo fornito dai torinesi per l’Unità d’Italia non poteva esistere se fossero stati quei “neghittosi”. - Gregorio Leti (1675) scrisse “fatiche, rischi ed assiduità, cose contrarie alla nostra natura dolce, amando noi di passare la vita con agio e riposo, ed essendo nemici di novità…, modesti, umili, ubbidienti e fedeli“.
L’autore non era molto d’accordo e infatti definì il Leti “un momentino bugiardo“, avvalendosi anche dei testi di Tiraboschi (“Nelle storie del Leti invano si cercano la verità e l’esattezza“) - Parlando del 1570: Ambasciatori presso Emanuele Filiberto e veneziani presso la Corte Sabauda, descrivevano i torinesi “spensierati, ingordi, scialacquatori, senza un’industria al mondo, nemici di ogni sorta di fatica, salvo di quella che si fa ballando, nella quale non sono mai stanchi“.
Un’esagerazione secondo l’autore, asserendo che gli ambasciatori erano famosi per dire male di tutto e di tutti, soprattutto coloro che provenivano dalla Serenissima, i quali assistevano ad un aumento del potere piemontese con l’annessione di nuove province, la fortificazione di un nuovo stato indipendente mentre il loro, dopo lo splendore del passato, iniziava a decadere.
Si tende quindi più a seguire la descrizione di Michele Lessona piuttosto che quelle appena citate e pubblicate senza fondamento. Lessona scrisse:
- “Torino… sa adempiere degnamente al suo compito. Ha elementi di potenza e di civiltà quanto e più di ogni altra città italiana” che saprà utilizzare puntando sulla “propria operosità“, sulle “braccia e l’ingegno“. “…sarà visitata non solo come culla della redenzione d’Italia, ma come città fiorente di prosperità dovuta al lavoro” (1869).
Nel 1865, grazie ad un’idea del politico bolognese Gioachino Pepoli, venne spostata la capitale d’Italia da Torino a Firenze. Fu un vero disastro per il commercio e l’economia del capoluogo piemontese. Molte attività erano legate allo status di capitale. Tuttavia, i torinesi non si abbatterono e, anzi, reagirono in maniera forte, trovando nuovi orizzonti, più redditizi, più stabili e duraturi.
Nel 1880 le parole di Michele Lessona trovarono conferma. Torino invita tutti gli italiani all’Esposizione di Belle Arti, e il milanese Tullio Massarini disse:
“Lasciando agli altri il ciarlare, voi siete all’operare primissimi. Voi avete voluto dalla vostra antica e splendida tradizione militare far risalire la fortuna d’Italia, e vi siete riusciti; voi avete voluto provare che l’egemonia politica era l’occasione e la forma, non la condizione necessaria della vostra mirabile operosità; avete voluto innestare sulla grande città politica la grande città industriale ed artistica, e vi siete riusciti, e ce la mostrate più florida, più fruttuosa, più gloriosa che mai” […] tutto viene racchiuso “in una parola che qui da voi non si legge solo nel marmo e nel bronzo, ma, assai meglio, nel moto dei vostri negozi, nella frequenza delle vostre scuole, nel fervore dei vostri opifici: Lavoriamo!“.
Seguirono altri elogi nei confronti dell’operosità torinese, come quello ad opera del piacentino Ernesto Pasquali. Tante le difficoltà affrontate a fine secolo (‘800) ma sempre superate, grazie al carattere del “Bôgianen” torinese. Il nuovo stato italiano conferì la medaglia d’oro alla Città di Torino, per i suoi sforzi e tutti i sacrifici.
Con questo, continua l’autore, non si vuole dire che i torinesi siano sempre stati i primi sul sentiero del progresso o che abbiano scoperto tutto il possibile; ma in certe cose sono stati i primi, senza perdere tempo a vantarsene.
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Uno spunto interessante, visto con gli occhi di uno scrittore vissuto quasi un secolo e mezzo fa. Chissà che tale racconto non abbia suscitato un po’ di curiosità nei nostri lettori.
La prossima volta ci occuperemo del Bicerin.